martedì 30 maggio 2017


Vivere la periferia di una grande città non è un’impresa facile.
Si è veramente in tanti, chi è nato e cresciuto da sempre qui, chi ci è arrivato, magari da un altro paese, chi si è sposato e ha messo su casa vicino al lavoro, chi è rimasto solo ed è stato contretto a trovare una soluzione più piccolina. Ma poi le vere esigenze sono sempre le stesse, servizi, strutture, per lo studio, per il lavoro,  per il divertimento, mezzi di trasporto rapidi e la possibilità di sentirsi circondati da un ambiente gradevole e sereno, fatto anche di spazi verdi e aperti.     Sono tutti compiti dello Stato,attraverso i suoi Consigli di zona, indubbiamente, ma le protagoniste che creano la vera differenza sono comunità spontanee, volontarie, costituite dai non più giovani che nel loro quartiere credono e desiderano mantenerlo sempre vitale. Ecco quindi mille iniziative, lo sport e la musica per i giovani, e ancora teatro, arte, pittura, poesia  per ogni età.  Mi sono avvicinata a Quarto Oggiaro, Villa Schleibler, l’Associazione Artistica Sirio, l’Associazione Quarto Oggiaro Vivibile, sono fatte da  persone splendide che investono la maggior parte del proprio tempo in questo progetto.

 
Ecco quindi una delle mie ultime creazioni
Il quadro con cui ho partecipato al Concorso di Pittura ” Una finestra sull’arte” organizzato dal Gruppo Artistico Sirio e concluso negli Spazi del Portello in Piazzale Accursio . Il dipinto è proprio in onore della “Street Art”
 
Due racconti ispirati alle periferie, uno mio e uno di Alfredo Maggi, con i quali abbiamo partecipato al concorso letterario  indetto dall’Associazione Quarto Oggiaro vivibile
 
A CASA DA MIA NONNA di Angela Aruta

Sono nata in un piccolo appartamento alla periferia di Milano. Parliamo del 1951.   Le abbiamo sempre chiamate case popolari ma in effetti sono state costruite subito dopo la guerra dalla Edison per i propri dipendenti. Dignitose,  non esattamente confortevoli. Allora sicuramente non si andava troppo per il sottile, un tetto sulla testa e un letto dove poter dormire era già casa, e quindi poteva sembrare del tutto normale non avere l’acqua calda per lavarsi.  Il retro del caseggiato si affacciava sui campi che in certi periodi dell’anno si riempivano di pecore al pascolo.  La prima regola che impari abitando lì è la completa e assoluta condivisione. Gli stabili sono disposti a rettangolo su un fazzoletto di giardino, il muro di recinzione corre tutt’intorno, le finestre una di fronte all’altra non ti concedono alcuna discrezione.  Il ragu’ domenicale della Tina al primo piano invade con il suo profumo tutte le stanze dei vicini; dalla cucina di Nicola un urlo ti fa sobbalzare, otto ragazzoni stretti stretti davanti alla radio festeggiano così il gol decisivo del Derby; musica a tutto volume dal piano rialzato, sempre la stessa; tutti sappiamo tutto di tutti, nomi, cognomi, lavoro, amori, ogni fatto viene rigorosamente condiviso.  A volte un sussulto nella notte, ma niente paura, è la Maria che è andata a riprendersi il marito all’osteria, è un brav’uomo ma gli basta un bicchiere di vino per sentirsi le gambe molli e poi, agli amici che gli offrono un goccino, non sa mai dire di no.  Da piccolina vivevo tutto questo con eccitazione, mi divertivo, e ogni nuovo evento era uno stimolo che mi rendeva curiosa.  E ancora da piccolina potevo godere di un privilegio veramente formidabile, la libertà di scendere in cortile da sola per giocare con gli altri bambini. Ogni pomeriggio, allo scoccare delle quattro, con la mia fetta di pane burro e zucchero tra le mani, correvo giu’ per le scale ad assaporare la mia avventura. E quanto mi sentivo importante.  Certamente non mi sono mai accorta che mia nonna dal finestrino del tinello e la custode dalla sua guardiola non mi perdevano mai di vista, io ero comunque libera di correre in lungo e in largo per il giardinetto. Il salto della corda, le corse a nascondino, bandiera, e quando proprio mi mancava il fiato  mi sedevo sul muretto con le gambe a penzoloni, le scarpe bianche di polvere e le calzine grigie,   tenendo la mano alla mia amichetta del cuore. Se facevamo troppo rumore la portiera ci correva dietro con la scopa di saggina alzata, ma questo rendeva tutto ancora più divertente e ci faceva urlare ancora di più. E alle sette tutti a casa, mi aspettava la tinozza fumante per darmi una pulita.   Era mia nonna che si occupava di me perché mia mamma lavorava e doveva spesso anche partire.  Un po’ confusionaria e brontolona, mia nonna mi voleva un gran bene. Tra mia nonna e mio nonno invece la storia era molto diversa, guerra ad oltranza, litigi, discussioni senza fine e quando proprio mio nonno non c’e la faceva più a controbattere puntava le mani sul tavolo e guardando la nonna fissa negli occhi sentenziava: “se te mazzavi trent’ann fa, adess seri giamò foeùra!” (se ti ammazzavo trent’anni fa oggi ero già fuori!)  A mio nonno era affidato il compito di portarmi al catechismo ma l’incarico non durò molto. Da bravo comunista aveva deciso che il catechismo non fosse cosa per sua nipote e quindi, in quei pomeriggi, mi portava al cinema, Totò e Fernandel erano i nostri preferiti. Purtroppo , quando il Prete disse a mia madre che non potevo essere ammessa alla Comunione perché non avevo seguito il corso, il nostro segreto fu miseramente scoperto e mio nonno perse l’incarico.  La spesa si faceva ogni giorno, tutto quello che serviva si comprava al bisogno, un etto di farina, mezz’etto di pastina, il latte nella bottiglia di vetro, anche le sigarette del nonno, due o tre al massimo, nella bustina piccola di carta, già allora pubblicizzata. Molto spesso la nonna mi portava a casa un boero, quelli liquorosi con la ciliegia intera dentro, ma non lo comprava, lo vinceva sistematicamente dal panettiere. Il gratta e vinci di allora. Consisteva in un espositore a piramide con tanti  bastoncini colorati. Lo trovavi dal panettiere e anche nei bar. Quando estraevi il bastoncino trovavi dietro il bigliettino con scritta la tua vincita , da un boero ad una scatola intera di cioccolatini. E spesso la nonna riusciva a vincere anche la scatola intera. La nonna era molto fortunata in quasi tutti i giochi, tutte le settimane andava a giocarsi la schedina al totocalcio.  L’anno che ha fatto un tredici siamo andati tutti al mare a Cattolica.  Il nonno e la nonna sono partiti in treno, io in macchina, Fiat 600 nuova fiammante in rodaggio, con mia mamma alla guida e la zia Stefanona al seguito. Partenza alle 3 di notte “perché fà più fresco”. La zia, di stazza non indifferente, si è addormentata subito dopo il casello di Melegnano ed io per tutto il viaggio ho dovuto tenerla saldamente abbracciata contro il sedile per evitare che sprofondasse su mia madre. 7 ore di viaggio a 60 all’ora  (per via del rodaggio naturalmente e perché l’autostrada, allora, era solo fino a Bologna).  Poi al mare i dieci  giorni alla Pensione Alba sono stati fantastici.   Crescendo ho continuato a scendere in giardino dopo i compiti ma non si giocava più tutti insieme, i maschi stavano un po’ in disparte tra di loro, lanciandoci di tanto in tanto delle occhiatine mentre prendevano a calci una lattina, e noi femmine avevamo i nostri primi segreti da sussurrarci all’orecchio.  A casa mia non invitavo mai nessuno per studiare insieme, il cucinino era troppo piccolo e nonna aveva sempre da fare, avanti e indietro per quelle due stanzette. Alle volte ero invitata, le mie compagne avevano la loro cameretta per studiare e l’appartamento ero grande e silenzioso ma mi ricordo che quando rientravo a casa ne ero felice e sentivo una grande sensazione di benessere.  Ormai i gradini delle scale li facevo a due per volta, e nel salire riconoscevo tutti i miei profumi e i miei rumori.     Oggi sono nonna, ho cambiato tre case dopo che mi sono sposata,  appartamenti graziosi, zone di Milano più centrali, ma non ho più ritrovato quel senso di appartenenza che ho provato da piccolina nella casa di mia nonna. Dopo otto anni, ancora non conosco il nome dell’inquilino del terzo piano e non so nemmeno che lavoro faccia, i bambini  ci sono ma non si sentono, forse vanno al parco o rimangono al doposcuola .

La casa popolare dove ho vissuto c’è sempre, al posto delle biciclette ci sono belle macchine parcheggiate davanti al marciapiede, la gente che entra ed esce è giovane, spesso non italiana, hanno messo il citofono e mi sembra che la portiera non ci sia più, ma in lontananza, nel giardinetto, vedo ancora dei bambinetti ridere e correre felici.    

 
Il circo di Alfredo Maggi
La guerra era finita da una decina di anni, ma erano ancora lontani i tempi dell’abbondanza, l’Italia stava rinascendo faticosamente, ci si accontentava di poco,  e il ricordo delle privazioni e della fame era ancora vivo. Ma per noi bambini “quel poco” , un po’ ingenuo e un po’ provinciale, ce lo saremmo ricordati per sempre.              Un paio di volte all’anno, proprio nei prati a poche decine di metri da casa mia, piantava le tende un circo. Era un piccolo circo beninteso, un circo di periferia.                 Era sempre mio nonno che mi portava, nei posti più in alto, perché costava un po’ meno, ma si vedeva bene lo stesso.               Il circo organizzava una gara tra gli spettatori. Si doveva mangiare un piatto di spaghetti con le mani legate dietro la schiena. Chi vinceva si portava a casa un salame. Alla gente non pareva vero. Già dal pomeriggio si radunava una piccola folla di gente che voleva partecipare al gioco. Ma pochi ci riuscivano perché la gara era riservata solo a sei persone e si diceva che  c’era chi si prenotava anche un anno prima. A chi protestava perché era stato escluso rispondevano che quello era uno spettacolo, non una mensa dove si poteva mangiare a sbafo.  Il circo, non aveva bestie feroci, i leoni o le tigri o animali così. Costavano troppo. Allora, una volta, si sono inventati  un numero bellissimo con un ammaestratore di mucche, sì mucche, bovini. Per la verità, quando sono entrate, sembravano piuttosto perplesse, ma lui, Pedrito, così si chiamava, cominciò a farle trotterellare tutto intorno all’arena una dietro l’altra facendo roteare la frusta come un vero domatore professionista. Senonchè, ad un certo punto le mucche, forse perché non ancora ben impratichite di questo nuovo lavoro o forse perché sindacalmente stizzite dall’essere state demansionate e rimosse dalla loro attività di sempre, cioè fare il latte, si sono ribellate apertamente. Prima si sono bloccate guardandosi intorno circospette. Poi si sono messe a correre disordinatamente muggendo in modo inquietante e cercando addirittura di saltare la staccionata per buttarsi sul pubblico. Fuga generale dalle prime file, con i bambini che ridevano come pazzi e che non volevano uscire mentre venivano trascinati fuori dalle loro madri urlanti. I pagliacci tentarono un intervento disperato cercando senza successo di pararsi davanti alle mucche per fermarle ma scappando poi subito a  gambe levate verso la staccionata. Pedrito, incurante del pericolo, era immobile in mezzo all’arena, con le braccia alzate, guardava verso il cielo come ispirato e gridava “hop hop hop” come se non stesse succedendo niente, come se le sue mucche stessero ancora girando placidamente intorno a lui.           Io, al sicuro nelle file più in alto, ero paonazzo dalle risate e mi aggrappavo al seggiolino, avrei voluto che non finisse mai, ma l’altoparlante salutò entusiasticamente il pubblico e annunciò che lo spettacolo era finito lì.                                 Quando, sei mesi dopo, il circo è tornato, mio nonno mi ha chiesto se volevo andare. Io gli ho domandato se c’erano le mucche. Mi ha risposto che non c’erano più. Il numero l’avevano cancellato a causa di quello che era successo.
Allora gli dissi : “Non andiamo nonno, senza le mucche il circo non è un vero circo”.